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Lucio Sergio Catilina

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Lucio Sergio Catilina
Pretore della Repubblica romana
Catilina raffigurato con le mani artigliate da Cesare Maccari in Cicerone denuncia Catilina (particolare), affresco, Palazzo Madama (Roma), 1880
Nome originaleLucius Sergius Catilina
Nascita108 a.C.
Roma
Morte62 a.C.
Pistoia
ConiugeGratiana
Aurelia Orestilla
FigliMarzio (da Gratiana)
GensSergia
PadreLucio Sergio Silo
MadreBelliena
Questura78 a.C.
Edilità70 a.C.
Pretura68 a.C.
Legatus legionis74 a.C. in Macedonia
Propretura67 a.C. - 66 a.C. in Africa

Lucio Sergio Catilina (in latino Lucius Sergius Catilina, AFI: [ˈluːkɪ̯.ʊs ˈsɛr.gɪ̯.ʊs ka:.tɪ̯.ˈliː.nɐ]; Roma, 108 a.C.Pistoia, 62 a.C.) è stato un generale e politico romano, per lo più noto per la congiura che porta il suo nome, un tentativo di sovvertire la Repubblica romana, e in particolare il potere oligarchico del Senato.

Origini familiari

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Catilina nacque a Roma nel 108 a.C. dal patrizio Lucio Sergio Silo e da Belliena. La famiglia nativa, i Sergii, pur di nobili origini, da molti anni non aveva ruoli significativi nella vita politica di Roma. L'ultimo dei Sergii a essere nominato console era stato Gneo Sergio Fidenate Cosso nel 380 a.C.[1][2] Virgilio più tardi fece derivare il nome della famiglia da un antenato, Sergesto, giunto in Italia con Enea, facendo quindi dei Sergii una delle famiglie originarie nella storia romana.[3]

Le conoscenze sulla gioventù di Catilina e sulla sua vita familiare sono limitate. Ebbe due mogli: Gratiana, sorella di Marco Mario Gratidiano, nipote di Gaio Mario, e Aurelia Orestilla, figlia di Gneo Aufidio Oreste (console nel 71 a.C.). Dalla prima ebbe un figlio che uccise, secondo Sallustio, in quanto ostacolo alle nozze con Aurelia Orestilla.[4]

Carriera politica

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Fasi iniziali

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Nell'89 a.C., non ancora ventenne, Catilina segue il generale Strabone nella guerra marsica contro le popolazioni italiche coalizzate contro Roma, e in questa occasione conosce Cicerone e Pompeo.[5]

Nell'88 a.C. passa agli ordini di Silla, eletto console, e lo segue in Asia nella prima guerra mitridatica.

La leggenda nera di Catilina

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Dagli storici contemporanei e da Cicerone, tutti a lui ostili, forse per pressioni ricevute dall'oligarchia senatoria, Catilina fu descritto malvagio e depravato. Nell'84 a.C., quando Silla rientrò a Roma per contrastare i suoi nemici politici (i populares) nella guerra civile romana, Catilina si segnalò come uno dei più abili e spietati suoi sostenitori, uccidendo fra gli altri il cognato Marco Mario Gratidiano, da lui stesso torturato e decapitato sulla tomba di Quinto Lutazio Catulo, illustre vittima delle persecuzioni di Gaio Mario; portò poi la testa a Roma e nel Foro la gettò ai piedi di Silla. Questo racconto e altri che raffigurano eventi simili, descritti come un sacrificio umano dell'epoca arcaica, in cui secondo varianti (come quella di Cassio Dione, vissuto tre secoli dopo), Catilina si macchiò anche di cannibalismo, sono state ritenute eccessive dagli storici moderni, miranti a screditarlo anche dal punto di vista umano, come sarebbe poi avvenuto anche per imperatori romani detestati dal Senato (Caligola, Nerone, Tiberio, Commodo).[6] Tra le altre accuse rivolte a Catilina, oltre all'omicidio e alla cospirazione, lo storico Sallustio aggiunge quelle di corruzione, di incesto, di violenza sessuale contro una vergine vestale (quest'ultima smentita subito) e anche di rapporti omosessuali con alcuni suoi compagni di congiura;[7] fu però assolto in tutti i processi, che secondo alcuni erano stati manipolati, ma che tuttavia ebbero l'effetto di rallentarne la carriera politica.[8]

Le cariche pubbliche

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Negli anni successivi, pur nel mutato clima politico dopo la morte di Silla, Catilina non subì condanne ed ottenne i primi successi politici: questore nel 78, legato in Macedonia nel 74, edile nel 70, pretore nel 68 e governatore dell'Africa nel 67.[9]

Coppe di propaganda elettorale di Catilina e Catone

Al suo ritorno, nel 66 a.C., si candidò per la carica di console, ma venne subito perseguito per concussione e abuso di potere, uscendone assolto;[10][11] ancora nel 66 fu accusato di cospirazione con Autronio ed un certo Publio Cornelio Silla, anche se i particolari furono poco chiari. Portato in giudizio nel 65 a.C., ricevette l'appoggio di molte persone influenti, anche di categoria consolare[9] come Lucio Manlio Torquato,[12] e lo stesso Cicerone ebbe ipotizzato di difenderlo in tribunale.[13] Catilina fu assolto, ma i processi furono sufficienti a mandare a monte la sua elezione a console.

Poiché ancora sotto processo, Catilina poté ricandidarsi a console solo nel 64 a.C. per l'anno successivo, ma il Senato, allarmato dalla sua accresciuta popolarità, gli oppose un brillante e famoso avvocato, Cicerone, un Homo novus. Già nel discorso di candidatura In toga candida (da cui il termine candidato), Cicerone iniziò a costruire l'immagine "nera" di Catilina, insinuando che fosse incestuoso, assassino, degenerato; gli optimates, l'oligarchia senatoria, mobilitano le loro clientele a favore di Cicerone, che vinse e venne eletto.

Catilina, tenace, si candidò nuovamente alle elezioni per il 62 a.C., non prima di essersi guadagnato l'appoggio della plebe romana con elargizioni e promettendo una ridistribuzione delle terre demaniali e delle prede di guerra (guadagnandosi così anche l'appoggio dei veterani di Silla, caduti in disgrazia) ed emanando addirittura un editto per la remissione dei debiti (detto Tabulae novae). Quest'ultima proposta allarmò la classe senatoria e Cicerone che, nell'orazione Pro Murena, sottolineò in Catilina «...la ferocia, nel suo sguardo il delitto, nelle sue parole la tracotanza, come se avesse già agguantato il consolato».

Con queste premesse, e con un possibile broglio elettorale, nelle elezioni Catilina venne sconfitto da Lucio Licinio Murena, personaggio gradito al Senato. La questione dei brogli venne sollevata non da Catilina, ma da Servio Sulpicio Rufo, un altro dei non eletti, e da Catone Uticense, uomo tutto d'un pezzo e notoriamente ostile a Catilina. Cicerone difese Murena dalle accuse di brogli ed attaccò Catilina, denunciandone la presunta congiura.

Cicerone, l'anti-Catilina

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Cicerone denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari (1880)

«[Rivolgendosi ai congiurati] Se io non avessi sperimentato la vostra determinazione e la vostra fedeltà, invano si sarebbe presentata a noi questa occasione favorevole; inutile sarebbe la nostra grande aspettativa di potere, né io cercherei, attraverso uomini codardi e falsi, l'incertezza al posto della certezza. Ma siccome io conosco la vostra fortezza e la vostra fedeltà nei miei confronti in molti e ardui cimenti, proprio per questo il mio animo mi consente di intraprendere questa impresa davvero grande e gloriosa, anche perché ho constatato che condividete con me i possibili vantaggi ma anche i pericoli. Infatti una vera amicizia si basa sugli scopi e interessi comuni.»

La congiura di Catilina fu la fonte principale dell'impianto accusatorio di Cicerone e fu uno degli eventi più famosi degli ultimi turbolenti decenni della Repubblica romana. Cicerone non risparmiò mezzi ed "effetti speciali"[14] per mettere in cattiva luce Catilina, che ancora avrebbe potuto giovarsi dell'esito della denuncia per brogli contro Murena.

Dalle fonti risultano chiari gli obiettivi dei cospiratori; secondo quanto riferito da Cicerone, sarebbero stati previsti un incendio doloso e altri danni materiali, oltre che l'assassinio di personaggi politici (in particolare Cicerone stesso, suo acerrimo nemico politico). La posizione di Cicerone si riassume bene nell'incipit della prima delle orazioni Catilinarie, pronunciata al Senato l'8 novembre del 63 a.C., in presenza dello stesso Catilina, quando Cicerone esordisce con:

(IT)

«Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?»

La congiura si sarebbe sviluppata attraverso incontri segreti - l'ultimo sarebbe avvenuto nella casa del senatore Marco Porcio Leca il 6-7 novembre del 63 a.C., alla vigilia della prima Catilinaria - ma una certa Fulvia, amante di uno dei congiurati (Quinto Curio), avrebbe informato direttamente Cicerone di quel che stava accadendo. Quella sera stessa due congiurati (Cetego e Vargunteio) si sarebbero presentati a casa di Cicerone e, con il pretesto di salutarlo, avrebbero tentato di ucciderlo. Ma grazie a Fulvia, Cicerone sarebbe scampato agli assassini. Cicerone si presentò al Campo Marzio circondato da una scorta e «...vestendo quella mia ampia e vistosa corazza [sotto la toga], non perché essa mi proteggesse dai colpi, che io sapevo essere suo costume [di Catilina] sferrare non al fianco o al ventre ma al capo o al collo, bensì per richiamare l'attenzione di tutti gli onesti».

L'accusa di congiura

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Alcide Segoni, Il ritrovamento del corpo di Catilina

All'ultimo momento Cicerone presenta in Senato alcune lettere anonime che accusano Catilina di cospirazione contro la Repubblica, radunando uomini in armi attorno a Fiesole, pur non potendo provarlo. Cicerone inoltre sostiene che Catilina abbia fatto offerte a varie tribù in Gallia per assicurarsi alleati, ma la tribù degli Allobrogi avrebbe rifiutato l'offerta e l'avrebbe resa pubblica avvertendo con lettere Cicerone stesso.

Il console Cicerone, a seguito di ciò, ottenne l'emanazione del senatus consultum ultimum, che dava ai consoli in carica, tra cui Cicerone stesso, poteri di vita e di morte. In virtù di tale delibera Cetego e Lentulo, i catilinari che non erano scappati con il loro capo (secondo l'accusa, rimasti a Roma avrebbero tentato comunque di far sollevare la plebe e la tribù degli Allobrogi), furono condannati alla pena capitale. Portati con i loro seguaci Lucio Statilio, Marco Cepario e Tito Volturcio nel carcere Mamertino, furono strangolati a uno a uno. Come cittadini romani sarebbe stato loro diritto appellarsi al popolo (provocatio ad populum, la richiesta di grazia sulla quale erano chiamati a pronunciarsi i comizi elettivi delle tribù romane) e in ogni caso avrebbero avuto diritto a poter scegliere l'esilio al posto della morte, anche se questo avrebbe comportato la confisca di tutti i loro beni. Il vulnus così inferto alla Costituzione romana fu rimproverato a Cicerone da Gaio Giulio Cesare durante la seduta del Senato e alcuni anni dopo, su iniziativa del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, Cicerone verrà punito con l'esilio per l'uccisione illegittima di cittadini romani; la sua difesa verteva invece sul fatto che il Senato aveva già dichiarato nemici della Repubblica i congiurati e dato pieni poteri al console, per cui l'esecuzione dei congiurati sarebbe stata esecuzione di nemici, non di cittadini.

Lo storico Sallustio ha scritto un resoconto sull'intera questione circa venti anni dopo, dal titolo De Catilinae coniuratione, senza però discostarsi significativamente dalle descrizioni di Cicerone (le differenze storiche sono per lo più sulla cronologia poiché Sallustio, equivocando, non si sa se per errore o per malizia, su una frase di Cicerone, ha anticipato di un anno la congiura[16]).

In ogni caso, già dopo le prime Catilinarie Catilina è costretto a una fuga in Etruria, che però definirà "esilio volontario".

Il 5 gennaio del 62 a.C. Catilina e i suoi fedelissimi furono intercettati dall'esercito romano comandato dal generale Marco Petreio nei pressi di Pistoia (Campo Tizzoro), nella piana denominata Ager Pisternensis; Catilina, vistosi bloccato il passaggio degli Appennini che conduce alla Gallia Cisalpina da Quinto Cecilio Metello Celere, pur sapendo di andare incontro a morte certa, decise di battersi insieme al suo esercito.[17] Prima della fine, Catilina pronunciò questo discorso (non ci sono fonti precise riguardo al fatto che sia stato effettivamente pronunciato: molto probabilmente è una ricostruzione a posteriori, sulla base di presunte testimonianze):

(LA)

«Compertum ego habeo, milites, verba virtutem non addere neque ex ignavo strenuum neque fortem ex timido exercitum oratione imperatoris fieri. Quanta cuiusque animo audacia natura aut moribus inest, tanta in bello patere solet. Quem neque gloria neque pericula excitant, nequiquam hortere: timor animi auribus officit. Sed ego vos, quo pauca monerem, advocavi, simul uti causam mei consili aperirem. Scitis equidem, milites, socordia atque ignavia Lentuli quantam ipsi nobisque cladem attulerit quoque modo, dum ex urbe praesidia opperior, in Galliam proficisci nequiverim. Nunc vero quo loco res nostrae sint, iuxta mecum omnes intellegitis. Exercitus hostium duo, unus ab urbe, alter a Gallia obstant; diutius in his locis esse, si maxume animus ferat, frumenti atque aliarum rerum egestas prohibet; quocumque ire placet, ferro iter aperiundum est. Quapropter uos moneo, uti forte atqueparato animo sitis et, quom proelium inibitis, memineritis uos diuitias decus gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris uostris portare. Si uincimus, omnia nobis tuta erunt: commeatus abunde, municipia atque coloniae patebunt: si metu cesserimus, eadem illa aduorsa fient, neque locus neque amicus quisquam teget quem arma non texerint. Praeterea, milites, non eadem nobis et illis necessitudo inpendet: nos pro patria, pro libertate, pro uita certamus; illis superuacaneum est pugnare pro potentia paucorum. Quo audacius adgredimini, memores pristinae uirtutis. Licuit uobis cum summa turpitudine in exilio aetatem agere, potuistis nonnulli Romae amissis bonis alienas opes expectare: quia illa foeda atque intoleranda uiris uidebantur, haec sequi decreuistis. Si haec relinquere uoltis, audacia opus est: nemo nisi uictor pace bellum mutauit. Semper in proelio iis maxumum est periculum, qui maxume timent: audacia pro muro habetur. Cum vos considero, milites, et cum facta vostra aestumo, magna me spes victoriae tenet. Animus, aetas, virtus vostra me hortantur, praeterea necessitudo, quae etiam timidos fortis facit. Nam multitudo hostium ne circumvenire queat, prohibent angustiae loci. Quod si virtuti vostrae fortuna inviderit, cavete inulti animam amittatis neu capiti potius sicuti pecora trucidemini quam virorum more pugnantes cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis!»

(IT)

«Soldati, so assolutamente che le parole non aggiungono valore e che un esercito non diventa coraggioso da vile né forte da pavido per un discorso del generale. Quanto è grande il coraggio nell'animo di ciascuno per indole o per educazione, tanto grande è solito manifestarsi in guerra. Colui che né la gloria né i pericoli incitano, lo potresti esortare invano: il timore dell'animo tappa le orecchie. Ma io vi ho chiamato per ammonirvi riguardo a poche cose e contemporaneamente per esporvi il motivo del mio piano. Invero certamente sapete, o soldati, qual grave danno abbiano portato a noi la viltà e l'indolenza di Lentulo, e anche a lui stesso, e per quale modo mentre aspettavo rinforzi dalla città, non sono potuto partire per la Gallia. Ora dunque a quale punto sia la nostra situazione, voi tutti lo capite insieme a me. Due eserciti nemici ci sbarrano la strada, uno dalla città e uno dalla Gallia; rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se il nostro animo lo desidera moltissimo, lo impedisce la mancanza di frumento e di altre cose. Dovunque ci piaccia andare, bisogna aprirsi la strada con le armi. Perciò vi esorto a essere forti e pronti e, quando entrerete in combattimento, a ricordare che voi portate nelle vostre mani destre ricchezze, onore, gloria, senza contare la libertà e la patria. Se vinceremo, non correremo più alcun pericolo; ci saranno vettovaglie in abbondanza, municipi e colonie spalancheranno le porte. Se, causa la paura, ci saremo ritirati, quei medesimi diventeranno ostili, nessun amico, nessun luogo potrà proteggere chi le armi non siano riuscite a proteggere. Inoltre, soldati, non è il medesimo bisogno a incombere su di noi e su di loro: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per loro è superfluo combattere per il potere di pochi. Perciò, attaccate con maggior audacia, memori dell'antico valore! Vi sarebbe stato concesso passare la vita in esilio con il massimo disonore: alcuni di voi avrebbero potuto bramare a Roma, dopo aver perso le proprie, le ricchezze di altri. Poiché quelle azioni sembravano turpi ed intollerabili agli uomini, avete deciso di seguire queste. Se volete abbandonare questa situazione, c'è bisogno di coraggio; nessuno, se non da vincitore, ha mai cambiato in pace una guerra. In guerra il massimo pericolo è quello di coloro che di più hanno paura; il coraggio è considerato come un muro. Quando vi guardo, o soldati, e quando considero le vostre azioni, mi prende una grande speranza di vittoria. L'animo, l'età, il valore vostri mi incoraggiano, e la necessità, inoltre, che rende coraggiosi anche i pavidi. E infatti l'inaccessibilità del luogo impedisce che la moltitudine dei nemici possa circondarci. Se la fortuna si sarà opposta al vostro valore, non fatevi ammazzare invendicati, e neppure, una volta catturati, non fatevi trucidare come bestie piuttosto che lasciare ai nemici una vittoria cruenta e luttuosa combattendo alla maniera degli eroi!»

Dopo la sanguinosa battaglia di Pistoia, Catilina morì (secondo Sallustio Catilina fu ritrovato ancora vivo sul campo, ferito mortalmente) insieme a 20.000 soldati (che confermano l'esistenza di una congiura per prendere il potere) e il cadavere decapitato fu gettato in un fiume; la testa fu portata a Roma da Antonio, uno dei congiurati di Catilina che si era finto malato per non combattere contro il suo superiore e soprattutto per non rischiare che quest'ultimo ne rivelasse la partecipazione alla congiura (per questo preferì lasciare il comando delle truppe romane a Marco Petreio).[17]

Il progetto politico di Catilina

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Joseph-Marie Vien, La congiura di Catilina

«Non è più degno morire da valorosi, piuttosto che trascorrere passivamente e con vergogna un'esistenza misera e senza onori, soggetti allo scherno e all'alterigia?»

Il progetto di Catilina non era troppo diverso da quello di altri che avevano tentato di riformare la repubblica in senso popolare, anche forzando il sistema, come Tiberio Gracco e suo fratello Gaio, e come poi farà anche Cesare.[18]

Nell'orazione Pro Murena del 63 a.C. Cicerone contestò a Catilina un'affermazione che ne rivelava il progetto politico: «La Repubblica ha due corpi: uno fragile, con una testa malferma; l'altro vigoroso, ma senza testa; non gli mancherà, finché vivo».

Nell'analisi di Catilina la repubblica romana vive una separazione gravissima della società dalle istituzioni. Il corpo fragile rappresenta il corpo elettorale romano, spaccato in cricche, clientele e bande (nell'88 a.C. gli Italici avevano avuto la cittadinanza romana, ma per votare occorrevano tempo e risorse per recarsi a Roma, da qui la degenerazione clientelare); la testa malferma rappresentava invece il Senato, abituato al potere ereditario, colluso con i grandi proprietari terrieri, composto per lo più dall'ottusa classe del patriziato.

Ritratto immaginario di Catilina in un manoscritto medievale.

Il corpo vigoroso ma senza testa simboleggiava la massa di contribuenti, tartassati e umiliati dal disordine politico (per ripagare i propri reduci, Silla aveva ordinato larghe confische ai piccoli possidenti), senza vera rappresentanza politica, per la quale Catilina si propone come "testa" pensante, al tempo stesso rendendosi conto della pericolosità dell'andare contro l'oligarchia dominante. Tra l'altro Catilina, tempo prima di organizzare la congiura contro l'oligarchia senatoria, si era fatto molti alleati e amici non solo tra i contribuenti e i piccoli proprietari terrieri, ma anche tra esponenti della classe degli equites. Insieme agli equites Catilina era riuscito a ingraziarsi anche molti senatori, spinti dal malcontento provocato dalla politica senatoria dell'epoca e di Pompeo, così come anche dalla difficile situazione economica di allora. A testimonianza della popolarità di Catilina fra i ceti sociali più bassi riportiamo due brani di Sallustio da De Catilinae coniuratione:

«Nel frattempo Manlio in Etruria istigava la plebe, desiderosa di cambiamenti allo stesso tempo per la miseria e per il risentimento dell'ingiustizia subita, poiché, durante la dittatura di Silla, aveva perso i campi e tutti i suoi beni; inoltre istigava i ladri di qualsiasi genere, di cui in quella regione c'era grande abbondanza, e alcuni coloni Sillani, ai quali, per dissolutezza e lussuria, non era rimasto nulla di ciò che avevano rubato.»

«E non era sconvolta solo la mente di coloro che erano i complici della congiura, bensì l'intera plebe, desiderosa di cambiamenti, approvava i propositi di Catilina. Così sembrava facesse ciò secondo il suo costume abituale. Infatti in uno Stato i poveri invidiano sempre i ricchi ed esaltano i malvagi; odiano le cose antiche, desiderano vivamente le novità; a causa dell'avversione alla loro situazione aspirano a sovvertire ogni cosa; si nutrono di tafferugli e di disordini, visto che la povertà rende facilmente senza perdite.»

Anni dopo la morte di Catilina, nell'orazione Pro Caelio del 56 a.C. (Celio era stato suo amico), Cicerone ammise che Catilina aveva raccolto attorno a sé «anche persone forti e buone», offriva «qualche stimolo all'attività e all'impegno», e che in certi momenti era sembrato a Cicerone perfino «un buon cittadino, appassionato ammiratore degli uomini migliori, amico sicuro e leale». Catilina, secondo Cicerone, «era gaio, spavaldo, attorniato da uno stuolo di giovani»; per di più, «vi erano in quest'uomo caratteristiche singolari: la capacità di legare a sé l'animo di molti con l'amicizia, conservarseli con l'ossequio, condividere ciò che aveva, prestar servigi a chiunque con denaro, aderenze, con l'opera...».[19]

Catilina presentava dunque i tratti dell'uomo politico di successo, capace di ottenere consensi, quindi malvisto dall'oligarchia degli optimates del Senato.

Caricatura dell'affresco di Cesare Maccari Cicerone denuncia Catilina

Nella cultura di massa

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  1. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 3, 27, nomina 6 tribuni consolari per quell'anno. L. et P. Valeriis, Lucio per la quinta volta, Publio per la terza, C. Sergio per la terza volta, Licinio Menenio per la seconda, e poi P. Papirio e Ser. Cornelio Maluginense
  2. ^ Sallustio, De coniuratione Catilinae V.1.
  3. ^
    (LA)

    «Sergestusque, domus tenet a quo Sergia nomen»

    (IT)

    «E Sergesto, dal quale prese il nome la gens Sergia»

  4. ^ Gaio Sallustio Crispo, XV, in De Catilinae coniuratione.
  5. ^ [[#CITEREFCicerone, Pro Caelio|Cicerone, Pro Caelio]], XIV.
  6. ^ Fini 1996, p. 19.
  7. ^ palumboeditore.it, https://www.palumboeditore.it/portals/0/piattaforme/clic/letteraturalatina/contents/Materiale_Interattivo/Intersezioni/01_V1_I_valori_morali/PDF/H1_INT3_PP12_T1.pdf.
  8. ^ Fini 1996, p. 50.
  9. ^ a b [[#CITEREFCicerone, Pro Caelio|Cicerone, Pro Caelio]], X.
  10. ^ Sallust, Bellum Catilinae XVIII.3
  11. ^ Asconius 85-87, 89C
  12. ^ Cicero, Pro Sulla LXXXI
  13. ^ Cicerone, Epistulae ad Atticum I.2
  14. ^ "L’uso di unguenti, vesti finemente ricamate, barba sempre rasata se non addirittura modellata artisticamente furono elementi visibili della corruzione del nobile Catilina (108-62 a.C.) e di buona parte della gioventù romana del I secolo a.C.": così G. Squillace, Le lacrime di Mirra. Miti e luoghi dei profumi nel mondo antico, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 64, citando Cicerone, Seconda Catilinaria, 5.10-11 e 10.22-23.
  15. ^ (LTEN) M. Tullius Cicero, Against Catiline, traduzione di C.D. Yonge, Albert Clark, Albert Curtis Clark Ed., 1856, I, I. Ospitato su Perseus Digital Library.
  16. ^ Fini 1996, p. 73.
  17. ^ a b Storia romana, Cassio Dione
  18. ^ Fini 1996, p. 56 e segg.
  19. ^ Cicerone, Pro Caelio, X-XIV.

Fonti antiche

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Voci correlate

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Membri della congiura di Catilina (lista non completa)

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Altri progetti

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Collegamenti esterni

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